domenica 11 maggio 2014

In frantumi.

di Mattia Sangiuliano
[continua da Come argilla]

«Si papà» risponde brevemente il ragazzo, sentendo affievolire, dentro di se quel moto di immotivato rancore che lo aveva attraversato sino a qualche istante prima, tradottosi poi in quella fantasiosa corsa al di là dei confini del quartiere, al di fuori di quello che è il suo territorio, la sua casa.
«È da un po che non ci sentiamo vero? Come va li da te? Tutto in ordine in parrocchia? E tu, soprattutto, come stai? E il parroco Roberto?»
La pioggia di domande che piombano addosso al giovane prete lo travolgono tramutandosi in una valanga. L'apprensione del padre lo lascia un po' interdetto ma, ricordandosi quasi all'istante il motivo della sua telefonata decide di tagliare corto e raggiungere subito il nocciolo della questione, il motivo della sua telefonata.
«Proprio di questo volevo parlarti, papà» Taglia corto Silvano, ponendo l'accento proprio su quel “papà” che tronca la sua frase, come un punto esclamativo interrompe una frase in un periodo ben misurato e preciso, nella sua concisa brevità.
«Dimmi...» esita il padre, perdendo il tono di autoritaria sicurezza che spesso caratterizza i suoi rapporti con quel figlio secondogenito, così lontano dal suo eletto primogenito; non è abituato a veder interdetta la sua autoritaria potestà, abituato com'è a trattare di petto politici della sua fazione, vescovi o clericali di qualsiasi estrazione, facendo pesare, senza dirlo apertamente, il suo essere stato eletto dalla curia, nominato, in quanto amico di quel cardinale così vicino al papa stesso. Un peso rilevante in politica, ma che si rivela un coccio rotto, frantumato, quando si ritrova a trattare con il suo figlio prete, così avverso alla politica paterna da qualche tempo a questa parte.
«Papà» esordisce il figlio, assaporando con una certa malizia il silenzio che piomba tra lui e il padre che, nelle interferenze dell'etere, sembra trattenere il fiato. Ma forse non è che un'impressione del figlio questa. « Oggi ho parlato con don Roberto, mi ha accennato qualcosa in merito ad una sorta di promozione. Tu ne sai qualcosa?»
«In che senso, figlio mio?» domanda il padre lievemente, senza chiamarlo per nome.
«Volevo sapere» domanda il parroco, noncurante di una certa ruvida e malcelata malizia «se per caso, in questo periodo, hai avuto modo di parlare con don Roberto».
«Assolutamente no!» Sibila il padre, affrettandosi subito a sottolineare la sua estraneità ai fatti, mostrandosi compiaciuto del figlio: «scommetto che hanno già notato quanto sei dedito alla causa del signore...»
«Sono tornato qua da appena due mesi, papà. Sembra molto strano, in così poco tempo. Non credi?»
Un attimo di silenzio precede la risposta del padre: «Beh, ma di cosa ti preoccupi... e poi, devi pur pensare al tuo futuro» borbotta il padre, pensieroso, dimostrando, agli occhi del figlio, di non aver intuito le motivazioni di questo.
«Ma ti ripeto che sembra molto strano; è poco ordinario» insiste il giovane parroco calcando ogni singola parola.
Il silenzio si frappone trai due: il figlio conosce già la risposta, vuole solo una confessione del padre, per avere più forza in quello scontro imminente; dall'altra parte il padre intuisce i sospetti del figlio.
«Se proprio ci tieni a saperlo...» inizia con un sospiro «Una lettera l'ho inviata» si decide infine a confessare il padre. Contro ogni previsione del figlio, il padre si arrende molto presto a confessarsi al suo secondogenito. Silvano ha raccolto l'ammissione del padre, la sua confessione, lo immagina ora, anche lui, appoggiato a un mobiletto simile al suo, su cui è adagiato un apparecchio molto probabilmente identico al suo; Silvano però può immaginare che alcune cose sono diverse. Ad esempio, quasi certamente, il padre non è intento ad accarezzare i motivi di un centrino di stoffa, molto probabilmente, nel solito gesto di esasperata stizza nei confronti delle rimostranze di suo figlio, ha assunto la solita posizione rigida, con una mano che picchietta nervosa il legno della credenza o lo stipite di una porta, nel classico atteggiamento di chi non sa che pesci prendere nei confronti della solita e perpetua insofferenza cui non c'è risposta da dare.
«Perché?» domanda il figlio alzando la voce, immaginando perfettamente l'atteggiamento del padre di fronte alle sue rimostranze, incapace di capire le ragioni del figlio, così distanti dalle ragioni di stato che spingono il padre a dominare la vita del suo secondogenito.
Ma la discussione vira, la stanchezza smarrita del padre viene sostituita da un moto di decisione, di cambio di rotta autoritario che lo spinge a prendere di petto il figlio: «Perché mi hanno informato del tuo amore per la filosofia e per quei ragazzi dell'oratorio. Ho scritto qualche lettera e ho ricordato proprio al tuo superiore quanto verso abitualmente in offerte proprio alla vostra parrocchia, e come posso portare tra i superiori di qua le questioni che affliggono la vostra regione».
“Di qua” pensa Silvano. “Mio padre è sempre stato 'di qua', come lui dice”.
«Ma io posso cavarmela da solo. E questi ragazzi hanno bisogno di una guida concreta, che sappia ascoltarli dando loro risposte concrete, non di un papa».
«No» esclama il padre repentinamente lasciando attonito Silvano. «Adesso basta» prosegue in tono deciso, in quello stesso tono che usa per questioni di affari e di calcolo quando deve farsi rispettare, quando deve rinserrare i ranghi per motivi d'ordine e di forma. Dopo aver respirato pesantemente il silenzio che sembra sovrastare l'intermittenza dei rumori dell'elettricità statica del telefono prosegue con un tono ancora più deciso, il tono del potere paterno che non ammette contraddizioni di sorta: «Devi pensare alla carriera, non solo a quei ragazzi. Devi pensare al ruolo che ti spetta, a quello che ho investito per te, al ruolo che ti spetta e compete. Devi farlo per noi, per la tua famiglia: per me, per tuo fratello che si sta sacrificando in politica... e per la tua povera madre».
Un senso di vuoto prende lo stomaco di Silvano; una fitta lo trapassa e lo fa piegare sull'apparecchio grigio sotto i suoi occhi, sotto l'apparecchio che si dissolve in una nube offuscata sotto i suoi occhi che si stanno riempiendo di disperate lacrime di rancore.
«Quale madre?» replica Silvano. «La madre che è li con te a Roma? La madre che ho visto tre o quattro volte tra le pause dei miei studi e le vacanze dal seminario?»
«Basta...» fa il padre, come impaurito.
«La madre di cui non ricordo neppure il volto, il colore dei capelli o degli occhi?»
«...Basta...» mormora ancora il padre con un filo di voce.
Ma il giovane uomo continua: «O quell'altra madre, quella morta di parto?»
Il silenzio è totale; calato come le dense ombre che sia allungano in ogni angolo della casa, avvolgendo nel loro manto ogni cosa. Le tempie pulsano, rimbombando nella testa di Silvano, in una eco che si propaga rimbalzando da una parete all'altra, come il colpo di coda di un tuono.
Silvano si rende conto di aver fatto macinare troppo la lingua, forse più di quanto avrebbe voluto fare a inizio di quella telefonata. Ma era necessario, si affretta a pensare con decisione, quasi come a volersi giustificare con se stesso.
«Forse è meglio che ci sentiamo quando ti sarai calmato» dice il padre con un filo di voce tremante; come se stesse soffocando.
Ma invece di tacere come il buonsenso gli consiglia di fare, Silvano incalza, non più infastidito, ma carico di una collera sorda, calcolata quanto distruttiva; tanta è a forza di una disperazione che lo spinge al desiderio di quel ceco confronto con suo padre. Un confronto che è il realtà il desiderio, la voglia, di scontrarsi con quella figura così lontana da lui. Quel padre lontano non solo fisicamente ma soprattutto caratterialmente; una lontananza che si traduce in una continua incomprensibilità figlia di una cecità abituale.
«Come sempre» incalza Silvano, a denti stretti, lasciando sfuggire un sorriso che gli tinge le labbra di amarezza «appena viene fuori la mamma tiri sempre indietro. Perché?»
La domanda è chiara, logica, mirata nella sua iconoclastica lucidità: vuole colpire e distruggere. E riesce nel suo devastante intento.
«Ci sentiamo presto. Ciao.» taglia corto il padre, in un filo di voce, in un sospiro che si perde nelle interferenze della linea telefonica che taglia gli appennini da est a ovest.
Un clic annuncia la fine della telefonata. Silvano accompagna anch'egli la cornetta, riagganciando con un gesto lento e preciso.
Silvano si lascia andare sulla poltrona di stoffa beige accanto all'apparecchio. Si passa la mano sul viso accarezzando la folta peluria nero scura con screzi ramati che gli ricopre il viso. Le mani continua il loro percorso, accarezzano le sopracciglia dopo aver stropicciato gli occhi del giovane prete. Silvano si prende la testa fra le mani, gli occhi chiusi navigano nella penombra del corridoio, mentre il parroco si concentra sul suo respiro. Qualcosa rallenta il respiro, lo opprime, e non è solo il pensiero della discussione ancora viva nella mene rovente del giovane.
Silvano si porta la mano sinistra al collo e si sfila il colletto bianco, simbolo del suo voto e del suo ruolo spirituale nella società civile, in seno a quella millenaria istituzione che rappresenta come pastore. Si porta alle labbra il colletto e lo bacia con un sospiro. Stringe così nel pugno quel candido e immacolato colletto prima di scagliarlo oltre il telefono.
Nell'ombra sempre più pressante, nell'oscurità calante, per la discussione e per quel gesto appena compiuto Silvano si lascia andare reclinando la testa sulla poltrona. Si addormenta così. Sogna.
I sogni di Silvano sono dominati da fantasmi evanescenti, orchi, cavalieri e una principessa da salvare; una sorella mai conosciuta, forse proveniente da un altro tempo, che versa lacrime insanguinate sotto un cielo talmente splendente da ferire gli occhi, mentre il cuore gli batte talmente forte da minacciare di rompergli il petto. Il cavaliere tenta di salvarla ma è sempre troppo tardi. Il cielo si scurisce inghiottendo il fallimento del cavaliere.
E mentre il pomeriggio lentamente volge in una sera cupa, il vento incomincia a sferzare le inferriate del palazzo, Silvano non si accorge di questo mutare e delle parole che hanno accompagnato il suo sprofondare in un sogno tormentato e che ripete in una continua e silenziosa litania e in una domanda che non trova risposta: «Mamma, mamma... perché mi hai abbandonato?»

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