giovedì 1 maggio 2014

Come argilla

di Mattia Sangiuliano

«Guarda attentamente. Se tendi troppo il filo si spezza. Devi prestare molta attenzione a mantenere la giusta tensione, senza ammorbidire e senza strattonare. E appena sei sicuro abbia abboccato fai girare il mulinello. Senza strattonare, mi raccomando. Vedi? Esattamente così... Ecco! Ecco! Guarda» esclama «Ha abboccato! Fatti da parte un attimo che mi impicci... senti che fatica...»
“No papà, non sento niente”.
E come la marea le nubi fanno ritorno. Tornano come una risacca di piombo ad annebbiare luoghi e pensieri.
Il parroco segue in silenzio i suoi pensieri ormai rassegnato a non poterli cancellare o sostituire. Pensa a suo padre. A quel suo padre politico così lontano, distante dal mondo e dagli affetti dei suoi figli.
Come quella volta a pesca. Al lago, in una giornata di festa, una domenica forse, quando suo fratello si era ammalato e il padre, per non perdere una giornata di sole, aveva deciso di portare con se il minore dei suoi figli.
Il bambino sorride mentre quella gioia del padre muta, attraverso uno specchio capovolto, in amarezza sulle labbra del figlio ormai adulto.
Ma la legge del padre è inviolabile, intoccabile.
“Onora il padre...” pensa il giovane parroco mentre gli occhi già incominciano a bruciare, solleticati da un vento insistente e minaccioso, che gli sputa in faccia pensieri e ricordi, parole e luoghi ma, soprattutto, vecchi sentimenti mai dimenticati.
Gli viene in mente la strada che ha intrapreso, irta di difficoltà e di ostacoli. Ricorda il tempo speso al seminario: i vincoli che lo costringono alla sua posizione. I voti che ha scelto di legarsi al collo; la legge della parola che deve rispettare e che deve amare. La stessa legge che era solito ripetere suo padre ogni volta che l'occasione era buona.
“Allora sono voluto diventare diacono, figlio di Dio e sposo di Cristo. Mio padre lo volle ed io così accettai. Felice di immolare il mio celibato per il padre terreno che mi generò; quel padre che ho visto sorridere due volte e piangere una sola volta, il giorno in cui mia madre abortì; il giorno in cui io e mio fratello perdemmo una nostra possibile sorella o, forse, chi lo sa, un altro fratello, un maschio.
A differenza di mio padre non piansi. O meglio, non subito. Quando divenni più grande incominciai a sentirmi solo, prima a Roma, poi in seminario, poi ancora una volta a Roma, sostando sempre più spesso qui, ad Ancona, tra le mura domestiche che ora, finalmente, mi ospitano definitivamente.
Quando ero piccolo sognavo spesso di giocare con quel fratello che non vide mai la luce del sole, che non poté mai toccare il mondo con il suo passo, che non poté neppure stringere la sua piccola manina attorno al mio pollice coma fanno tutti i bambini. Spesso mi capitava di pensare a quel fratello nato morto, muto e cieco. Me lo immaginai piccolo, glabro come il cucciolo proveniente da chissà quale nidiata. E innanzi ai miei occhi lo vedevo crescere modellarsi, farsi grande. Essere ermafrodito, maschio o femmina; io preferii farne una sorella. Scelsi i misteri del genere femminile e, in un certo senso, me ne innamorai. Era l'amore di un bambino di sette anni, puro.
Quando mio fratello qualche anno dopo se ne andò per studiare io ripresi lo spettro di questa sorella. Forgiata da un'immagine fantastica presa da quella famosa foto che ritraeva mia madre, e che mia zia teneva al sicuro, nel suo cassetto del comodino.
Il gioco era semplice; lei era la principessa, io il suo cavaliere. Io mi battevo per lei contro i mille draghi che volevano portarmela via e contro quegli orchi che volevano seppellirla viva dentro la bocca di un vulcano ormai spento, ma in realtà pronto ad esplodere da un momento all'altro!
In questo periodo, ricordo, piangevo solo la notte; quando mio padre era lontano, in casa di mia zia, mentre mio fratello studiava il greco sino a tarda notte seguendo il volere di nostro padre.
Inumidivo il cuscino con le mie lacrime e con la mia saliva, lo mordevo sino a farmi sanguinare le gengive mentre bagnavo tutto il letto pisciandomi addosso, lanciando questo silenzioso grido nella notte, come fossi una bestia.
Nessuno sentiva niente, eppure volevo, speravo, tutte le volte, che venisse qualcuno. Mia zia non mi ha mai sgridato la mattina quando vedeva i segni di quello spaventoso dolore che avevo provato la notte. Aveva compassione di me; e quella compassione non tardava mai a sciogliersi in rabbia e dolore mentre piangente mi abbracciava quando, la mattina, la chiamavo per errore “mamma”.
I giorni passano e gli anni cancellano gli incubi ma non i fantasmi. Soprattutto quelli che vorremmo eliminare. Quelli che ci siamo creati diventano angeli. Custodi celestiali. Così, tornato dopo cinque anni ad Ancona, da quella zia che mi accudì come fossi suo figlio, entrai un giorno nel Duomo e rimasi un pomeriggio intero ad ammirare un quadro della Madonna.
Ormai quattordicenne venni preso da una straziante nostalgia di fronte a quel quadro, forse piansi, non ricordo bene dettagli di quel piccolo soggiorno anconetano.
Gli anni passarono. Mio fratello concluse i suoi studi e parte dei disegni paterni. I progetti di mio padre incominciarono ad abbracciare anche il mio destino. Un figlio prete in una famiglia di politici e buoni cristiani. Il sogno di ogni moderato con il potere. Acconsentii e incominciai così i miei studi, il mio cursus onorum mentre mio fratello concludeva i suoi nell'ambito forense e nei salotti che frequentava quotidianamente con mio padre, a Roma.
Potere temporale e spirituale; la spada e lo scudo crociato nelle mani di mio padre. Io e mio fratello, l'orgoglio di nostro padre, l'onore, di nostro padre attraverso di noi e grazie a noi.”
Il nero avvolge ogni cosa, un vento incomincia ad alzare le gocce d'acqua che si sono accumulate sulle foglie degli alberi e sui tetti delle case.
«Chissà se i ragazzi sono ancora all'oratorio...» mormora tra sé e sé don Silvano ormai giunto in prossimità della casa di sua zia.
Appena dentro l'ampio corridoio il parroco si sfila il cappotto lasciandolo cadere in terra. In casa non c'è nessuno; sua zia deve essere andata a prendere il caffè da qualche sua amica, come è solita fare nei suoi pomeriggi di tranquilla senilità, senza troppe preoccupazioni.
In pochi passi Silvano raggiunge il telefono che è posizionato sul mobile davanti all'ingresso, accanto alla poltrona beige su cui la zia si posiziona, durante le sue telefonate.
Senza pensarci troppo compone il numero che conosce a memoria, anteponendo ad esso il prefisso della capitale.
Il telefono squilla a vuoto; nessuno risponde. Conta fino a dieci.
«Uno...» “ave Maria” «due...» “piena di grazia” «tre...» “il signore è con te” «quattro...» “tu sei benedetta fra le donne” «cinque...» “e benedetto è” «sei...» “il frutto del tuo seno: Gesù” «sette...» “Santa Maria...” «otto...» “madre di Dio...” «nove...» “prega per noi peccatori” «dieci...» “adesso e nell'ora della nostra morte. Amen.” «Amen».
Silvano impugna nuovamente la cornetta del telefono e ricompone il numero facendo scorrere la rotella di plastica incastonata nel corpo del ricevitore.
Questa volta, dopo appena tre squilli, una voce femminile risponde al telefono.
«Pronto?»
«Pronto?! Sono Silvano»
«Silvano! Figliolo!» Risponde la voce.
Il parroco stringe le labbra «Si... sto cercando mio padre, è in casa?»
«Si. Ma tu come stai?»
«Bene grazie» risponde sbrigativo il giovane, per poi aggiungere «È urgente».
«Si... certo» replica accondiscendente la voce femminile, in una specie di sospiro che attraversa il collegamento dorico-laziale solleticando l'orecchio del parroco che sente montare dentro di se una sorta di rabbia astiosa, un misto di sentimenti sgorgati da una sorta di fastidio viscerale; sa che, il parroco, nel suo ruolo, dovrebbe provare una sorta di pietà, di compassione per quella voce femminile che gli ha risposto così amorevolmente e premurosamente ma non riesce, e il non riuscire a provare compassione per quella voce e ne tanto meno per se stesso non fa che alimentare questo suo sentimento di stizza nei confronti di quella voce così melensamente materna, solo per una coincidenza frappostasi tra lui e suo padre. «Adesso te lo passo» prosegue lei, molto probabilmente noncurante dei pensieri e delle emozioni del giovane uomo dall'altra parte della cornetta, che ha scambiato che qualche parola con lui che si trova dall'altra parte della penisola, sulla costa adriatica.
«Grazie» risponde Silvano, in un sospiro che sfugge da due labbra appena contratte, in una smorfia dura, diretta al muro imbiancato sopra quella bassa vetrinetta su cui poggia l'apparecchio da cui ha chiamato la capitale, adagiato sopra un centrino fatto a mano, frutto dell'abilità della sua zia materna così amorevole nell'intrecciare le fibre sino a crearne un tessuto nella cui trama è inciso un motivo floreale.
Nell'attesa gracchiante all'apparecchio il curato accarezza i motivi geometrici di quell'ordito creato e accarezzato dalle mani che, amorevolmente hanno cesellato e intrecciato il filo in una tecnica amorevole che fa tornare alla mente del prete quando, ancora ragazzino, la zia lo accudiva così amorevolmente in quella stessa casa ai limiti del quartiere, a un passo dalla periferia vera, a poche centinai di metri dai campi che circondano il paesaggio e che, procedendo ancora un poco, si tramutano nella vera campagna marchigiana.
Un fruscio dall'altra parte della cornetta segnala che qualcuno ha preso in mano il ricevitore e armeggiando con questo lo sta portando all'orecchio. Silvano ritorna a casa ripercorrendo la strada che con la fantasia lo aveva fatto allontanare facendolo riandare con la mente a quei giorni in cui gironzolava per il quartiere spingendosi anche al di fuori dei confini stabiliti, in quei suoi giochi tutti fantastici, personali e incomprensibili per chi non li vive in prima persona, sulla propria pelle. Silvano ripercorre quel tragitto a ritroso tra i campi e le viuzze, entro il quartiere, sino al domicilio della sua zia materna, al primo piano dell'appartamento, in piedi nell'ingresso, in mezzo al corridoio, con una mano adagiata sopra un centrino fatto a mano e con la cornetta del telefono nell'altra. Dall'altra parte del telefono, un sospiro gli annuncia, finalmente, con chi sta per parlare. Una voce maschile lo saluta affabilmente: «Pronto Silvano! Sei tu?»

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