di Mattia Sangiuliano
«Guarda attentamente. Se
tendi troppo il filo si spezza. Devi prestare molta attenzione a
mantenere la giusta tensione, senza ammorbidire e senza strattonare.
E appena sei sicuro abbia abboccato fai girare il mulinello. Senza
strattonare, mi raccomando. Vedi? Esattamente così... Ecco! Ecco!
Guarda» esclama «Ha abboccato! Fatti da parte un attimo che mi
impicci... senti che fatica...»
“No papà, non sento
niente”.
E come la marea le nubi
fanno ritorno. Tornano come una risacca di piombo ad annebbiare
luoghi e pensieri.
Il parroco segue in
silenzio i suoi pensieri ormai rassegnato a non poterli cancellare o
sostituire. Pensa a suo padre. A quel suo padre politico così
lontano, distante dal mondo e dagli affetti dei suoi figli.
Come quella volta a
pesca. Al lago, in una giornata di festa, una domenica forse, quando
suo fratello si era ammalato e il padre, per non perdere una giornata
di sole, aveva deciso di portare con se il minore dei suoi figli.
Il bambino sorride mentre
quella gioia del padre muta, attraverso uno specchio capovolto, in
amarezza sulle labbra del figlio ormai adulto.
Ma la legge del padre è
inviolabile, intoccabile.
“Onora il padre...”
pensa il giovane parroco mentre gli occhi già incominciano a
bruciare, solleticati da un vento insistente e minaccioso, che gli
sputa in faccia pensieri e ricordi, parole e luoghi ma, soprattutto,
vecchi sentimenti mai dimenticati.
Gli viene in mente la
strada che ha intrapreso, irta di difficoltà e di ostacoli. Ricorda
il tempo speso al seminario: i vincoli che lo costringono alla sua
posizione. I voti che ha scelto di legarsi al collo; la legge della
parola che deve rispettare e che deve amare. La stessa legge che era
solito ripetere suo padre ogni volta che l'occasione era buona.
“Allora sono voluto
diventare diacono, figlio di Dio e sposo di Cristo. Mio padre lo
volle ed io così accettai. Felice di immolare il mio celibato per il
padre terreno che mi generò; quel padre che ho visto sorridere due
volte e piangere una sola volta, il giorno in cui mia madre abortì;
il giorno in cui io e mio fratello perdemmo una nostra possibile
sorella o, forse, chi lo sa, un altro fratello, un maschio.
A differenza di mio padre
non piansi. O meglio, non subito. Quando divenni più grande
incominciai a sentirmi solo, prima a Roma, poi in seminario, poi
ancora una volta a Roma, sostando sempre più spesso qui, ad Ancona,
tra le mura domestiche che ora, finalmente, mi ospitano
definitivamente.
Quando ero piccolo
sognavo spesso di giocare con quel fratello che non vide mai la luce
del sole, che non poté mai toccare il mondo con il suo passo, che
non poté neppure stringere la sua piccola manina attorno al mio
pollice coma fanno tutti i bambini. Spesso mi capitava di pensare a
quel fratello nato morto, muto e cieco. Me lo immaginai piccolo,
glabro come il cucciolo proveniente da chissà quale nidiata. E
innanzi ai miei occhi lo vedevo crescere modellarsi, farsi grande.
Essere ermafrodito, maschio o femmina; io preferii farne una sorella.
Scelsi i misteri del genere femminile e, in un certo senso, me ne
innamorai. Era l'amore di un bambino di sette anni, puro.
Quando mio fratello
qualche anno dopo se ne andò per studiare io ripresi lo spettro di
questa sorella. Forgiata da un'immagine fantastica presa da quella
famosa foto che ritraeva mia madre, e che mia zia teneva al sicuro,
nel suo cassetto del comodino.
Il gioco era semplice;
lei era la principessa, io il suo cavaliere. Io mi battevo per lei
contro i mille draghi che volevano portarmela via e contro quegli
orchi che volevano seppellirla viva dentro la bocca di un vulcano
ormai spento, ma in realtà pronto ad esplodere da un momento
all'altro!
In questo periodo,
ricordo, piangevo solo la notte; quando mio padre era lontano, in
casa di mia zia, mentre mio fratello studiava il greco sino a tarda
notte seguendo il volere di nostro padre.
Inumidivo il cuscino con
le mie lacrime e con la mia saliva, lo mordevo sino a farmi
sanguinare le gengive mentre bagnavo tutto il letto pisciandomi
addosso, lanciando questo silenzioso grido nella notte, come fossi
una bestia.
Nessuno sentiva niente,
eppure volevo, speravo, tutte le volte, che venisse qualcuno. Mia zia
non mi ha mai sgridato la mattina quando vedeva i segni di quello
spaventoso dolore che avevo provato la notte. Aveva compassione di
me; e quella compassione non tardava mai a sciogliersi in rabbia e
dolore mentre piangente mi abbracciava quando, la mattina, la
chiamavo per errore “mamma”.
I giorni passano e gli
anni cancellano gli incubi ma non i fantasmi. Soprattutto quelli che
vorremmo eliminare. Quelli che ci siamo creati diventano angeli.
Custodi celestiali. Così, tornato dopo cinque anni ad Ancona, da
quella zia che mi accudì come fossi suo figlio, entrai un giorno nel
Duomo e rimasi un pomeriggio intero ad ammirare un quadro della
Madonna.
Ormai quattordicenne
venni preso da una straziante nostalgia di fronte a quel quadro,
forse piansi, non ricordo bene dettagli di quel piccolo soggiorno
anconetano.
Gli anni passarono. Mio
fratello concluse i suoi studi e parte dei disegni paterni. I
progetti di mio padre incominciarono ad abbracciare anche il mio
destino. Un figlio prete in una famiglia di politici e buoni
cristiani. Il sogno di ogni moderato con il potere. Acconsentii e
incominciai così i miei studi, il mio cursus onorum mentre mio
fratello concludeva i suoi nell'ambito forense e nei salotti che
frequentava quotidianamente con mio padre, a Roma.
Potere temporale e
spirituale; la spada e lo scudo crociato nelle mani di mio padre. Io
e mio fratello, l'orgoglio di nostro padre, l'onore, di nostro padre
attraverso di noi e grazie a noi.”
Il nero avvolge ogni
cosa, un vento incomincia ad alzare le gocce d'acqua che si sono
accumulate sulle foglie degli alberi e sui tetti delle case.
«Chissà se i ragazzi
sono ancora all'oratorio...» mormora tra sé e sé don Silvano ormai
giunto in prossimità della casa di sua zia.
Appena dentro l'ampio
corridoio il parroco si sfila il cappotto lasciandolo cadere in
terra. In casa non c'è nessuno; sua zia deve essere andata a
prendere il caffè da qualche sua amica, come è solita fare nei suoi
pomeriggi di tranquilla senilità, senza troppe preoccupazioni.
In pochi passi Silvano
raggiunge il telefono che è posizionato sul mobile davanti
all'ingresso, accanto alla poltrona beige su cui la zia si posiziona,
durante le sue telefonate.
Senza pensarci troppo
compone il numero che conosce a memoria, anteponendo ad esso il
prefisso della capitale.
Il telefono squilla a
vuoto; nessuno risponde. Conta fino a dieci.
«Uno...» “ave Maria”
«due...» “piena di grazia” «tre...» “il signore è con te”
«quattro...» “tu sei benedetta fra le donne” «cinque...» “e
benedetto è” «sei...» “il frutto del tuo seno: Gesù”
«sette...» “Santa Maria...” «otto...» “madre di Dio...”
«nove...» “prega per noi peccatori” «dieci...» “adesso e
nell'ora della nostra morte. Amen.” «Amen».
Silvano impugna
nuovamente la cornetta del telefono e ricompone il numero facendo
scorrere la rotella di plastica incastonata nel corpo del ricevitore.
Questa volta, dopo appena
tre squilli, una voce femminile risponde al telefono.
«Pronto?»
«Pronto?! Sono Silvano»
«Silvano! Figliolo!»
Risponde la voce.
Il parroco stringe le
labbra «Si... sto cercando mio padre, è in casa?»
«Si. Ma tu come stai?»
«Bene grazie» risponde
sbrigativo il giovane, per poi aggiungere «È urgente».
«Si... certo» replica
accondiscendente la voce femminile, in una specie di sospiro che
attraversa il collegamento dorico-laziale solleticando l'orecchio del
parroco che sente montare dentro di se una sorta di rabbia astiosa,
un misto di sentimenti sgorgati da una sorta di fastidio viscerale;
sa che, il parroco, nel suo ruolo, dovrebbe provare una sorta di
pietà, di compassione per quella voce femminile che gli ha risposto
così amorevolmente e premurosamente ma non riesce, e il non riuscire
a provare compassione per quella voce e ne tanto meno per se stesso
non fa che alimentare questo suo sentimento di stizza nei confronti
di quella voce così melensamente materna, solo per una coincidenza
frappostasi tra lui e suo padre. «Adesso te lo passo» prosegue lei,
molto probabilmente noncurante dei pensieri e delle emozioni del
giovane uomo dall'altra parte della cornetta, che ha scambiato che
qualche parola con lui che si trova dall'altra parte della penisola,
sulla costa adriatica.
«Grazie» risponde
Silvano, in un sospiro che sfugge da due labbra appena contratte, in
una smorfia dura, diretta al muro imbiancato sopra quella bassa
vetrinetta su cui poggia l'apparecchio da cui ha chiamato la
capitale, adagiato sopra un centrino fatto a mano, frutto
dell'abilità della sua zia materna così amorevole nell'intrecciare
le fibre sino a crearne un tessuto nella cui trama è inciso un
motivo floreale.
Nell'attesa gracchiante
all'apparecchio il curato accarezza i motivi geometrici di
quell'ordito creato e accarezzato dalle mani che, amorevolmente hanno
cesellato e intrecciato il filo in una tecnica amorevole che fa
tornare alla mente del prete quando, ancora ragazzino, la zia lo
accudiva così amorevolmente in quella stessa casa ai limiti del
quartiere, a un passo dalla periferia vera, a poche centinai di metri
dai campi che circondano il paesaggio e che, procedendo ancora un
poco, si tramutano nella vera campagna marchigiana.
Un fruscio dall'altra
parte della cornetta segnala che qualcuno ha preso in mano il
ricevitore e armeggiando con questo lo sta portando all'orecchio.
Silvano ritorna a casa ripercorrendo la strada che con la fantasia lo
aveva fatto allontanare facendolo riandare con la mente a quei giorni
in cui gironzolava per il quartiere spingendosi anche al di fuori dei
confini stabiliti, in quei suoi giochi tutti fantastici, personali e
incomprensibili per chi non li vive in prima persona, sulla propria
pelle. Silvano ripercorre quel tragitto a ritroso tra i campi e le
viuzze, entro il quartiere, sino al domicilio della sua zia materna,
al primo piano dell'appartamento, in piedi nell'ingresso, in mezzo al
corridoio, con una mano adagiata sopra un centrino fatto a mano e con
la cornetta del telefono nell'altra. Dall'altra parte del telefono,
un sospiro gli annuncia, finalmente, con chi sta per parlare. Una voce maschile lo saluta affabilmente: «Pronto Silvano! Sei tu?»
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